Il Bruto minore[1], a suo modo formidabile canzone, terza del ciclo delle canzoni del ’21-22, composta nel dicembre del 1821, subito richiede la considerazione della imponenza dei motivi che vi si ritrovano; anche se essa ha dei limiti interni che si ripercuotono naturalmente nella resa poetica, proprio per una certa sproporzione tra la ricchezza e anche, a volte, la complicatezza dei motivi, spesso piú esplosivi che completamente meditati, e la loro piena elaborazione poetica.
È poesia, comunque, che si impone all’attenzione di un lettore del Leopardi per il suo valore entro questo ciclo ed entro tutto lo sviluppo leopardiano. Il Bruto minore, rispetto alla tematica di Nelle nozze della sorella Paolina o di A un vincitore nel pallone, presenta una maggiore complessità, anche se rimangono evidenti dei legami rispetto alle due precedenti canzoni, sia per il fondo generale di pressione che c’è in tutte queste canzoni; sia per il riferimento all’azzardo, al rischio, a quel sentimento della vita intensa cui Leopardi aspira anche quando, come nel Bruto minore, sembra rifiutarla e negarla; sia infine per la ripresa di motivi (quali quelli emergenti dal finale di A un vincitore nel pallone), dove l’invito al giovane atleta a non sopravvivere alla patria caduta poteva suggerire anche una prospettiva di suicidio per la caduta della libertà, al di là della vecchia affermazione piú apertamente combattiva della canzone All’Italia («L’armi, qua l’armi: io solo / combatterò, procomberò sol io»).
Se dunque legami vi sono, tuttavia chi si trovi di fronte a questa nuova poesia non può non avvertire insieme che c’è stato un forte salto rispetto alle prime due canzoni e che il Bruto minore si apre in un ambito piú grandioso, piú ricco di temi. Si pensi al tema della caduta della civiltà repubblicana romana, della caduta del periodo delle beate e generose illusioni e dell’affiorare di un’epoca di disperata verità che annulla queste illusioni e le mostra (da un punto di vista razionalistico) inutili e vane e quindi addirittura oggetto di rifiuto e di bestemmia.
Ci sono, in questa canzone, temi profondi e complessi, come quello del suicidio o come quello della protesta contro gli dei e contro il fato, che addirittura può segnare la punta piú avanzata nella prospettiva leopardiana in questo periodo. E ancora il dubbio persino sulla credenza nell’immortalità ultraterrena, che Bruto sentirà come un dubbio che contribuisce a immiserire la vita umana e a ostacolare la stessa affermazione del suicidio. Oppure, il rapporto dell’uomo con la natura, in cui Leopardi tenta anche con difficoltà (e la base della canzone è proprio una base di difficoltà, di ingorgo) di salvare il suo sistema con la giustificazione storica di Bruto che pone un tempo precedente alla caduta delle illusioni, della beata natura, il tempo in cui essa era “reina e diva”. Ma anche su questa giustificazione storica di un’epoca in cui la natura parlava agli uomini, preme qualcosa di piú profondo, cioè il sentimento leopardiano dell’indifferenza della natura succeduta al cadere delle illusioni e al distacco da essa degli uomini: ma questo tema diventa cosí massiccio, cosí premente che sembra in qualche modo forzare e superare i limiti entro cui lo stesso Leopardi cercherebbe di circoscriverlo.
Questo ingorgo e pressione di temi può spiegare i limiti interni del Bruto minore, la sua difficoltà di raggiungere un equilibrio. Indubbiamente anche per le novità della metrica e del linguaggio poetico (un tentativo di lirica drammatica con raccordi a una forma quasi teatrale), la canzone appare come estremamente nuova, stimolante, originale entro il percorso della poesia e della personalità leopardiana. Anche perché a questa canzone lo stesso Leopardi dette il singolare valore di documento, autorizzato e autorevole, delle sue fondamentali opinioni di carattere filosofico, del suo atteggiamento rispetto alla vita e all’ordine delle cose.
Un amico svizzero, Luigi De Sinner, che si era molto preoccupato di confortare la fama filologica e poetica del Leopardi in Europa, scriveva nel 1832 da Parigi al Leopardi annunciandogli l’invio di alcuni numeri di un giornale tedesco, Hesperus, in cui si parlava del poeta e si riportavano tradotti in tedesco Il sogno e l’operetta Cantico del gallo silvestre. Il De Sinner affermava di non essere contento del tutto dei due articoli, che introducevano questi brani:
[...] le brave homme, en allemand religieux, a cru devoir vous adresser à la religion, ce que je trouve absurde, pour vos ouvrages s’entend. Vous serez plus content du second morceau qui est de mon ami Monsieur Henschel, jeune Prussien établi à Paris depuis un an et que j’aime beaucoup et pour ses qualités morales et pour son érudition solide et variée. Malheureusement le correcteur de l’Hesperus a encore trouvé à propos de changer et de tronquer quelques phrases de Monsieur Henschel, et d’y faire des intercalations. Ainsi la phrase oú il est question de l’influence délétère de vos profondes études sur votre santé, est toute entière du correcteur de Stuttgart.[2]
A questo annuncio e all’invio di questi numeri del giornale, il Leopardi rispondeva nella lettera del 24 maggio 1832, e quindi in un periodo in cui egli aveva indubbiamente usufruito di tante esperienze, di tanti complessi sviluppi di pensiero e di poetica:
Ho ricevuto i fogli dell’Hesperus, dei quali vi ringrazio carissimamente. Voi dite benissimo ch’egli è assurdo l’attribuire ai miei scritti una tendenza religiosa.
Leopardi continua in francese, forse volendo che il suo amico potesse servirsi della sua dichiarazione per un’eventuale pubblicazione, preoccupato anche di questo sfondo europeo della sua fama:
Quels que soient mes malheurs, qu’on a jugé à propos d’étaler et que peut-être on a un peu éxagérés dans ce Journal, j’ai eu assez de courage pour ne pas chercher à en diminuer le poids ni par de frivoles espérances d’une prétendue félicité future et inconnue, ni par une lâche résignation. Mes sentimens envers la destinée ont été et sont toujours ceux que j’ai exprimés dans Bruto minore. Ç’a été par suite de ce même courage, qu’étant amené par mes recherches à une philosophie désespérante, je n’ai pas hésité a l’embrasser toute entière; tandis que de l’autre côté ce n’a été que par effet de la lâcheté des hommes, qui ont besoin d’être persuadés du merite de l’existence, que l’on a voulu considérer mes opinions philosophiques comme le résultat de mes souffrances particulières, et que l’on s’obstine à attribuer à mes circonstances matérielles ce qu’on ne doit qu’à mon entendement. Avant de mourir, je vais protester contre cette invention de la faiblesse et de la vulgarité, et prier mes lecteurs de s’attacher à détruire mes observations et mes raisonnemens plutôt que d’accuser mes maladies.[3]
L’appellarsi al coraggio, a una filosofia disperata ma accettata tutta interamente, il rifiutare una spiegazione bassamente patologica di tale filosofia, naturalmente ci persuade ulteriormente di certi atteggiamenti fondamentali del Leopardi, che nel ’32 avevano ormai trovato un chiarimento, una persuasione ancora piú profonda, donde questa forza piú ferma e piú calma, la forza di un uomo che è interamente “persuaso” e che non ha bisogno di “gridare”, come nel Bruto minore.
Ma questo riferimento al Bruto minore, che nel 1832, proprio al culmine dell’esperienza e dello svolgimento del pensiero leopardiano, è stato dichiarato dal poeta stesso documento tuttora valido, ci conferma la singolare importanza di questa canzone, proprio per quello che qui Leopardi vi sottolineava, cioè l’assurdo attribuire una tendenza religiosa ai suoi scritti, e inoltre per quello che egli esprimeva circa i suoi sentimenti di fronte al destino, al fato, insomma di fronte ai poteri superiori. Leopardi sente che col Bruto minore si è aperta piú chiaramente in lui una prospettiva di protesta, di rivolta contro un certo ordine delle cose: questo è naturalmente molto importante per capire convenientemente quanto di nuovo, di profondo si debba trovare nella canzone.
D’altra parte, chi volesse troppo facilmente saldare questa canzone con ciò che il Leopardi dice nel 1832, accettandone l’autorizzazione a considerarlo documento permanente, potrebbe essere tratto anche in certi errori di interpretazione del fondo della poesia e del suo stesso impianto poetico.
Questo mi pare che in parte sia avvenuto al Russo nel suo importante commento[4], a proposito di quel punto molto delicato, in cui Bruto si esalta nella sua prospettiva di eroico combattente contro il fato:
Guerra mortale, eterna, o fato indegno,
teco il prode guerreggia,
di cedere inesperto; e la tiranna
tua destra, allor che vincitrice il grava,
indomito scrollando si pompeggia,
quando nell’alto lato
l’amaro ferro intride,
e maligno alle nere ombre sorride. (vv. 38-45)
Il Russo notava acutamente una certa enfasi a proposito di questi versi e soprattutto di quel «si pompeggia», che indubbiamente colpisce, non solo per la sua aulicità, ma per quel certo che di atteggiato del personaggio e del poeta stesso e quasi di eccessivo che vi si può notare, legato com’è a un bisogno di dilatazione maggiore, eroica. Ma (pur essendo egli un critico che, legato alla prospettiva fondamentale di tipo crociano, però seppe avvertire nella personalità leopardiana certi elementi agonistici, eroici, e certi raccordi alfieriani, cosí importanti, come abbiamo detto e come torneremo a dire) aggiungeva poi che questa enfasi, questo bisogno di atteggiarsi quasi piú del necessario, poteva essere un elemento rivelatore nel Leopardi di una certa gracilità interiore di lottatore.
Evidentemente qui il Russo ha considerato il Bruto minore, non solo come documento (come diceva il Leopardi), ma in qualche modo come una prospettiva globale, per cui una certa enfasi è anche corrispettiva di qualità quasi nucleari del poeta, che ha sí dell’agonismo ma gli è però insita una certa gracilità. Idea che portava il Russo a ricadere tante volte nell’opinione che, tutto sommato e malgrado questi elementi agonistici ed eroici, la zona piú intensa della poesia leopardiana restava pur sempre il nucleo di carattere idillico.
Ebbene, la poesia va letta nella sua prospettiva storica e logica non facendone la voce di tutto Leopardi, ma la voce significativa di un particolare momento. Storicizzare, cioè, il giudizio del piú maturo Leopardi del 1832, che introduce in questa poesia certi elementi importanti della sua personalità storica, filosofica, esistenziale, maturati successivamente, che in questa fase, in questa poesia non sono ancora tutti interamente posseduti; e storicizzare questa poesia ponendola al suo giusto posto, per cogliere, degli atteggiamenti che in essa vengono rappresentati, l’aggressività, l’esplosività, che deriva dalla loro natura nuova, ma che è anche il corrispettivo di qualcosa di meno profondamente e intimamente posseduto.
La poesia va riportata entro questo muoversi leopardiano: infatti chi legga accanto al brano del ’32 la canzone Amore e Morte, con cui il poeta realizzava quella protesta annunciata nella lettera stessa, troverà un Leopardi che non ha piú bisogno di quella che il Russo chiamava una certa enfasi, un certo turgore (senza dubbio presente nel Bruto minore, denunciato da parole come «si pompeggia»), perché lí quella protesta è diventata tanto piú saldamente sicura, persuasa, perché ormai poesia e pensiero sono diventati piú intimamente fusi; laddove in questo difficile, intricato periodo del ’21-22 permane un certo squilibrio tra posizioni che vengono affiorando con energia e la mancanza di una adeguata, lenta e piú profonda maturazione. E ciò vale non solo sul piano espressivo, ma anche nell’ambito della riflessione filosofica: lo Zibaldone è ancora pieno di remore di fronte alle punte piú aggressive, che investono problemi fondamentali; nello Zibaldone Leopardi ancora si muove malgrado tutto nell’ambito di una concezione di carattere provvidenziale che, se pur non riferita precisamente in termini religiosi (perché egli già considera la religione come una via secondaria e comunque non la sua via), è però provvidenziale in quanto agganciata al sistema della natura.
Questa violenta protesta, questa bestemmia contro il fato, gli dei, l’ordine delle cose sopravanza ciò che egli aveva piú consistentemente maturato dentro il lavoro complesso dello Zibaldone; di qui un certo squilibrio provocato dalle posizioni piú aggressive del Bruto minore, che ne costituiscono le punte piú interessanti e piú nuove e che, nella stessa economia del pensiero leopardiano, porteranno a forzature e rotture (basti pensare alla ripresa che di certi temi di questa canzone si avrà nell’Ultimo canto di Saffo).
La poesia dunque va valutata in questa sua delicata posizione, che è piuttosto di apertura e di impostazione di certi temi, che non di una loro completa risoluzione e maturazione. Di qui, un certo che di come piú gridato e quasi di eccessivo nell’immagine, nel linguaggio, negli atteggiamenti del personaggio: Leopardi ha bisogno di tutto questo per vincere le difficoltà in cui ancora si trova, per far passare nella sua poesia motivi che ancora sono pieni di contrasti, non completamente e intimamente posseduti.
Questa struttura del Bruto minore spiega anche i ritorni indietro di Alla Primavera e cioè i ritorni al sistema fondamentale della natura buona e benefica, che ancora Leopardi non aveva superato fino in fondo; cosí come spiega la forma piú lievemente maturata e la maggiore misura poetica che gli stessi elementi di protesta e di denuncia del Bruto minore troveranno nell’Ultimo canto di Saffo.
La difficile centralità della canzone nello sviluppo poetico di questo ciclo può renderne precipitosa la valutazione; essa va letta tenendo conto di quello che porta di nuovo e della difficoltà che tale novità comporta per la stessa elaborazione poetica, come prova il tumultuoso lavoro delle varianti.
Come si può vedere, accennando a qualche caso di scelta di varianti, il Leopardi infatti ha sentito tutta la difficoltà di elaborare un linguaggio che sostenesse questi nuovi problemi piú aggressivi, e che d’altra parte fosse capace, per quanto era possibile, di una certa misura pur nella tensione dello stesso sforzo e dell’eccesso provocato dallo squilibrio tra la parte consolidata del suo pensiero e questi temi nascenti.
Ecco perché l’osservazione fatta da Piero Bigongiari proprio in sede di critica delle varianti («Il Bruto minore è lavorato con una sapienza stilistica superiore al necessario»)[5] è sbagliata: in effetti, è vero il contrario. Tutto lo sforzo leopardiano, testimoniato dal gran numero delle varianti, per dare espressione ai punti piú dolenti e problematici, sul destino, sugli dei, era imposto dalla complessità di questi problemi la cui intrinseca difficoltà stava proprio, da una parte nel forzare i toni a una dilatazione maggiore che sostenesse questi motivi non ancora tutti maturi, e d’altra parte nel trovarvi una misura.
La tematica del Bruto minore piú nuova, piú aggressiva, piú interessante per la futura rottura di certi aspetti del sistema della natura e per nuove, fondamentali persuasioni del Leopardi è dunque senza dubbio la punta della protesta e della bestemmia. Il canto cioè del suicidio, dell’isolamento, della caduta delle illusioni, su cui si è assai insistito da parte dei critici, è certo pieno di questi elementi nessuno dei quali va perso; ma è soprattutto, nella sua punta piú intensa, piú aggressiva e piú nuova rispetto allo svolgimento leopardiano, un canto di protesta, di denuncia e di bestemmia, inizialmente contro la stessa virtú e poi contro il «fato indegno» e gli «inesorandi numi».
D’altra parte, che la centrale novità di questa canzone stia nell’elemento della protesta e della bestemmia è stato molto onestamente riconosciuto anche da un critico di ispirazione cattolica, Mario Marcazzan, nel suo saggio «Leopardi e l’ombra di Bruto»[6].
Col Bruto minore (piú di quanto fosse avvenuto con le canzoni precedenti, per esempio A un vincitore nel pallone, che già poteva suggerire questi elementi), indubbiamente Leopardi dall’interno della sua posizione viene anche a inserirsi su un piano di maggior consonanza con tutta la vasta pressione di una tematica della poesia che soffrí la Restaurazione e che ha pure una prospettiva molto variegata e con giustificazioni differenti: si pensi a certi poemi di Byron, oppure a certe opere di De Vigny, di Shelley e di altri poeti europei contemporanei, nei quali è largamente attivo e vivo l’elemento della protesta, della denuncia nei confronti di un ordine, non piú accettabile, delle cose.
Carica aggressiva, protesta e denuncia contro l’ordine delle cose, che richiama anche anticipi nella ricca fermentante zona dell’ultimo Settecento, tra Illuminismo e Romanticismo; basti pensare al Prometheus del Goethe, quella figura titanica di uomo e di generatore di uomini, che si ribella al fato, al cielo, a Giove, ritenuto nella fanciullezza benevolo, provvidenziale e poi nella matura ragione scoperto indifferente, lontano e ostile. Un Prometeo visto da Goethe anche con un certo orgoglio di carattere umanistico-illuministico, come fondatore della civiltà, generatore di uomini, che godano e soffrano umanamente e imparino insieme a non onorare gli dei e Giove.
Su questa strada si ritrovano consonanze importanti, con testi piú torbidi quali il Cain e il Manfred di Byron; oppure con piú grandi poeti come lo Shelley del Prometheus Unbound (Prometeo liberato); oppure ancora, entro la piega di un atteggiamento che poi ha esiti assai diversi, con lo stesso grandissimo lirico tedesco Hölderlin del Hyperions Schiksaalslied (Canto del destino di Iperione), in cui si contrappongono gli uomini sofferenti e destinati a cadere lentamente, come l’acqua versata di roccia in roccia giú verso l’ignoto, con gli dei che vivono senza destino, beati, indifferenti alla sorte umana; oppure, vicino a certe posizioni leopardiane, anche se con giustificazioni molto diverse e con esiti diversi, con il De Vigny di Les Destinées e soprattutto di quella importantissima poesia, Le mont des oliviers, in cui il figlio dell’uomo (non piú il figlio di Dio), abbandonato di fronte alla morte, di fronte al dolore, trova un cielo chiuso e ostile («Se il cielo ci lasciò come un mondo imperfetto e solo abbozzato, muto, cieco, sordo al grido delle creature, il giusto opporrà il disprezzo, l’indifferenza all’assenza e non risponderà piú che con un freddo silenzio, al silenzio eterno della divinità», recitano i versi conclusivi della poesia).
De Vigny arriva, in questo silenzio opposto al silenzio degli eterni, a un atteggiamento come piú virilmente stoico; ma piú chiare appaiono le consonanze con quelle posizioni che Leopardi viene svolgendo dal Bruto minore in poi, quando, superata e dispersa l’enfasi e l’immaturità di questa canzone, con miti piú alti e meno atteggiati grandiosamente, egli col mito supremo dell’uomo della Ginestra, giungendo a una persuasione piú intima e profonda, piú raccordata con posizioni filosofiche, tanto piú precise e sicure, senza piú baldanza, senza piú orgoglio e senza vile rassegnazione, ancora piú profondamente si inserirà in questa mitologia della protesta cosí diffusa e variamente giustificata entro il primo Ottocento europeo. All’ambito piú vasto di tale mitologia della protesta, pur con tutta una necessaria gradazione di diversità, la poesia leopardiana appartiene, come già sentiva il De Sanctis, e in essa ha, credo si possa affermare senza veli pregiudiziali nazionali o nazionalistici, forse il posto piú alto.
Per precisare ulteriormente la posizione leopardiana nel Bruto minore rispetto alle successive prospettive, è bene avvertire che il Leopardi per questa poesia era partito dalla bestemmia contro la virtú, alla quale accoppia poi la bestemmia contro la divinità: ma questa attuale compresenza porterà poi a conclusioni opposte, che è bene distinguere per evitare frivole confusioni. La bestemmia della virtú nel Leopardi è una di quelle forme di negazione che nascono da un animo esasperato in reazione a certi aspetti della realtà che lo conducono anche a negare quegli stessi valori verso i quali è fermamente piú sollecitato da un’ardente e disperata aspirazione: come può verificarsi negli stessi esiti piú lontani, piú maturi e definitivi, per esempio, nei Paralipomeni della Batracomiomachia, nel passo del canto quinto relativo alla morte del capo della schiera dei topi, Rubatocchi, che, ignominiosamente abbandonato da tutti i suoi seguaci, rimane solo e preferisce immolarsi piuttosto che fuggire:
Bella virtú, qualor di te s’avvede,
come per lieto avvenimento esulta
lo spirto mio: né da sprezzar ti crede
se in topi anche sii tu nutrita e culta.
Alla bellezza tua ch’ogni altra eccede,
o nota e chiara o ti ritrovi occulta,
sempre si prostra: e non pur vera e salda,
ma imaginata ancor, di te si scalda.
Ahi ma dove sei tu? sognata o finta
sempre? vera nessun giammai ti vide?[7]
Dove è notevole che la virtú, immaginata come rara e forse neppure mai esistita, rappresenta tuttavia per lui la bellezza piú alta: la sua scelta non è, come in altre prospettive del romanticismo, una scelta estetica (la poesia non è il valore assoluto e superiore), ma una scelta etica, la virtú è una bellezza che supera ogni altra bellezza.
Se dunque nella via della bestemmia della virtú Leopardi proseguirà in una direzione positiva, cioè verso un vagheggiamento, un desiderio sempre piú ardente, per la bestemmia del fato, dei poteri superiori, procederà verso una sempre piú lucida e ferma condanna. Non vale cioè il sofisma per cui chi bestemmia Dio lo afferma, a cui d’altra parte non si prestò lo stesso Gioberti che chiamò i Paralipomeni il «libro terribile»[8] proprio da un punto di vista teologico e religioso. Quindi le due vie sono, a ben guardare, non confondibili ma divergenti.
Per quanto riguarda la loro genesi nel Bruto minore, indubbiamente la prima forma di apostasia è quella accolta dal Leopardi attraverso la sentenza riferita dagli antichi scrittori sulla vanità della virtú come si può riscontrare nell’Epistolario del Leopardi. Cioè, la prima molla della poesia non è stata la protesta piú alta, ma la bestemmia della virtú, la protesta dell’uomo virtuoso che spasima della virtú, come è detto in una lettera al Giordani[9], ma che a un certo punto la sente vana, irrealizzabile nel mondo, irrealizzata dagli uomini, particolarmente dagli uomini del proprio tempo, che seguono le leggi della ragione gretta, calcolatrice, utilitaristica: è su questa strada che il Leopardi incontra la sentenza attribuita a Bruto e che avverte il fascino di questo personaggio storico.
Nella concezione della canzone, quindi, a un certo punto, sulla via piú facile che era quella di riprendere Bruto come l’interprete di questo sentimento di vanità della virtú e di legarlo alla dimensione storica della caduta delle illusioni e della civiltà antica, venne a inserirsi e a prevalere all’interno dello stesso lavoro creativo questa piú alta protesta, che era quel motivo che indubbiamente poteva piú tardi spingere Leopardi a riconoscere la poesia come un documento essenziale dello sviluppo del suo pensiero e di iniziale rottura rispetto al sistema basilare della natura. Anche questo crescere tematico può ulteriormente spiegare quanto si è detto sulle intime difficoltà e immaturità e sull’enfasi e sul turgore linguistico di questa canzone.
Prima di affrontare la lettura si può aggiungere che l’impostazione e la costruzione di questa poesia sono nuove rispetto alle precedenti: il poeta ha scelto una forma lirico-drammatica, come poi farà, ma in maniera tanto piú sfumata e piú intima, nell’Ultimo canto di Saffo; ha scelto, cioè, un personaggio che agisce e parla su di una scena a cui certamente egli era stato sollecitato, nella continua adesione al grande Alfieri, dalla stessa impostazione tragica alfieriana; dall’Alfieri, tra l’altro, egli riprende in questa canzone anche parecchie espressioni, anzitutto quelle che descrivono Bruto, quando si presenta sulla scena, «molle di fraterno sangue» (v. 10) (che rimanda alla tragedia alfieriana Polinice), oppure, piú avanti, quando definisce gli uomini «gl’infermi / schiavi di morte» (vv. 32-33), un calco ripreso direttamente da varie tragedie alfieriane.
D’altra parte anche dal punto di vista della costruzione metrica, come è stato indicato da Mario Fubini[10], questa, rispetto alle due canzoni vicine (cui certamente è legata per molte ragioni, tra cui lo stile energico, conciso, anche “pellegrino”) è caratterizzata da un rarefarsi delle rime. Mentre nelle canzoni precedenti c’era un solo verso non rimato, qui su quindici versi di ciascuna strofa, nove risultano rimati, e, soprattutto, le rime vanno verso il finale, particolarmente sugli ultimi due versi a rima baciata, per creare come un suggello solenne. Nei tredici versi precedenti, questa rarefazione delle rime può indicare la volontà leopardiana di far prevalere nella canzone, al di là di una grave melodia, un piú nudo, risentito e rilevato ritmo sintattico corrispondente al tipo del linguaggio che, come si è già accennato, ha spesso toni piú montati ed eccessivi.
La prima strofa è quella che Leopardi dedica alla scena su cui fa ingresso il personaggio, concepita grandiosamente, con quelle tinte cupe, livide, squallide, che sono fondamentali nel colore di questa canzone non pittoresca; non si ha cioè un semplice scenario, ma un luogo desolato, dal significato profondo e trascendente la battaglia di Filippi, in cui Bruto si trova tragicamente solo: un luogo che è insieme quello della grandiosa caduta della civiltà, della libertà latina e delle generose illusioni.
Una scena, quindi, colma di allusioni sia a un tragico momento storico preciso, sia non dirò, per non forzare le cose, a Waterloo, ma a quel secolo tetro e scellerato della Santa Alleanza in cui le illusioni erano cadute ed era prevalsa la gretta ragione:
poi che divelta, nella tracia polve
giacque ruina immensa
l’italica virtute, onde alle valli
d’Esperia verde, e al tiberino lido,
il calpestio de’ barbari cavalli
prepara il fato, e dalle selve ignude
cui l’Orsa algida preme,
a spezzar le romane inclite mura
chiama i gotici brandi;
sudato, e molle di fraterno sangue,
Bruto per l’atra notte in erma sede,
fermo già di morir, gl’inesorandi
numi e l’averno accusa,
e di feroci note
invan la sonnolenta aura percote. (vv. 1-15)
Questa scena storica implica la caduta, la «ruina immensa» dell’«italica virtute», del valore italiano, latino. Al momento della caduta della libertà, la prospettiva del futuro prepara le invasioni barbariche, la caduta intera della civiltà romana.
Il tono della scena a cui tende il Leopardi è fosco e squallido, come è provato dalle stesse varianti al verso 6 («le selve ignude»), fra le quali il poeta scelse proprio quella piú pertinente a questo estremo squallore, a quest’assenza di vitalità[11].
La presentazione di Bruto introduce nel tema fondamentale della caduta dell’antica civiltà di Roma, delle sue libertà, della preparazione delle invasioni barbariche uno strappo nel sistema leopardiano della natura; l’accusa e la rivolta di Bruto infatti portano piú indietro l’inizio della caduta delle illusioni, avvenuta dunque non piú in tempi moderni ma in epoche sempre piú lontane fino al mitico Eden primitivo di Alla Primavera, all’incorrotto mondo dell’Inno ai Patriarchi.
La figura di Bruto ha certamente un che di atteggiato, di concitato, di turgido («Sudato, e molle [...] l’averno accusa»), ma si precisa subito tuttavia negli elementi di accusa e di protesta piú nuovi e aggressivi, anche se per ora meno intimamente elaborati. Per ora la denuncia sull’ordine delle cose e sul suo Autore, ha dell’esplosivo; le posizioni, raggiunte di slancio, vengono ad affiorare fortemente fin da questa prima strofa in cui gli obiettivi della rivolta sono chiaramente identificati: «gl’inesorandi / numi e l’averno accusa».
«E di feroci note / invan [...] percote»: ed egli inutilmente (la parola “invano” è estremamente importante e anticipatrice di quello che sarà lo svolgimento del motivo della natura indifferente) percuote con i suoi feroci lamenti questa sonnolenta aura, cioè quella atmosfera di inerzia, di torpore, in cui vivono ormai gli uomini e la natura.
Con la seconda strofa inizia il discorso diretto di Bruto, e inizia secondo la genesi intenzionale della poesia che si può raccogliere attraverso le lettere, lo Zibaldone, altri testi.
Fra certi abbozzi di operette estremamente gracili, ma che per alcuni aspetti anticipano le Operette morali, risalenti agli anni ’20-21, ci sono scritti come il Dialogo Galantuomo e Mondo, o la Novella: Senofonte e Niccolò Machiavello, in cui Leopardi svolgeva soprattutto il motivo della virtú, che, per ragioni storiche e ormai anche per ragioni generali e universali, dimostra tutta la sua sostanziale vanità, tanto che nel Dialogo Galantuomo e Mondo, il galantuomo, l’uomo nato per la virtú, a un certo punto si accorgerà della inutilità della via fino ad allora seguita e, rinnegando la virtú, prenderà il nome di «Virtuoso Penitente».
Questo è il tema che viene a consolidarsi soprattutto nella seconda strofa:
Stolta virtú, le cave nebbie, i campi
dell’inquiete larve
son le tue scole, e ti si volge a tergo
il pentimento. A voi, marmorei numi,
(se numi avete in Flegentonte albergo
o su le nubi) a voi ludibrio e scherno
è la prole infelice
a cui templi chiedeste, e frodolenta
legge al mortale insulta.
Dunque tanto i celesti odii commove
la terrena pietà? dunque degli empi
siedi, Giove, a tutela? e quando esulta
per l’aere il nembo, e quando
il tuon rapido spingi,
ne’ giusti e pii la sacra fiamma stringi? (vv. 16-30)
Questa strofa dunque sovrappone subito al tema della bestemmia della virtú, della «Stolta virtú», quello della protesta contro gli dei, motivata dal crollo stesso delle illusioni che coinvolge la virtú e tutta la stessa visione della vita della civiltà antica, quindi la stessa religione degli dei e del fato.
Si potrà ricordare, fra gli abbozzi di operette sopra citati, la Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte, scritta dopo il Bruto minore, nel marzo del ’22. Vi si legge a proposito della sentenza di Bruto sulla virtú:
[...] fu come un’ispirazione della calamità, la quale alcune volte ha forza di rivelare all’animo nostro quasi un’altra terra, e persuaderlo vivamente di cose tali, che bisogna poi lungo tempo a fare che la ragione le trovi da se medesima, e le insegni all’universale degli uomini, o anche de’ filosofi solamente. E in questa parte l’effetto della calamità si rassomiglia al furore de’ poeti lirici, che d’un’occhiata (perocché si vengono a trovare quasi in grandissima altezza) scuoprono tanto paese quanto non ne sanno scoprire i filosofi nel tratto di molti secoli.[12]
Evidentemente Leopardi era qui preoccupato di motivare anche l’eccezionalità della sentenza di Bruto, legata a questa immensa sciagura dell’uomo virtuoso, che vede crollare tutte le sue idee, tutto il suo mondo, tutta la sua civiltà.
Certamente è interessante che la stessa protesta contro il fato, che costituisce il tema piú nuovo, piú aggressivo, carico di futuro nello svolgimento leopardiano, sia come motivata, da una parte dall’aver risentito e rivissuto personalmente la singolare calamità di Bruto e insieme appunto dalla sua stessa idea della forza d’intuizione, del furore, dei lirici (la «calamità» e il «furore de’ poeti lirici»), che quasi in un solo momento, con una sola occhiata scoprono verità che richiedono molto tempo per essere dedotte e consolidate razionalmente. Qualcosa di simile va di nuovo ribadito per quello che riguarda i temi piú nuovi del Bruto minore, che nascono come una forma piú impulsiva, attraverso una collaborazione piú forte da parte del furore lirico.
In questa seconda strofa si avverte il forte passaggio al tema piú urgente, la protesta: «marmorei numi». Si noti la ricchezza di motivi dell’invettiva leopardiana che si possono ritrovare entro queste poche righe: «A voi, marmorei numi», indifferenti, freddi, chiusi alla sorte degli uomini. Espressioni in cui rifluiscono anche tante sollecitazioni nell’attiva memoria del Leopardi lettore, e cioè tutta questa serie di ribellioni e di accuse al fato e agli dei, che si ritrovavano nella letteratura antica. I commentatori a volte riportano non solo celebri passi del libro IV dell’Eneide, soprattutto le parole di Didone morente (situazione che Leopardi risentirà anche nell’Ultimo canto di Saffo), ma certe affermazioni di Ovidio, di Lucano e naturalmente di Lucrezio per il quale gli dei vivono indifferenti e beati o addirittura, come qui dice il Leopardi, marmorei, insensibili alla sorte degli uomini.
«(se numi avete in Flegetonte albergo / o su le nubi)»: questa parentesi arricchisce assai l’invettiva leopardiana; qui addirittura la stessa esistenza degli dei, prima chiamati «marmorei», è posta in dubbio. Ma nella pregnanza del periodo leopardiano s’enuncia ancora una altra possibilità: con un passaggio evidentemente non logico, ma piuttosto motivato dall’accavallamento di motivi urgenti, che rendono piú complessa questa protesta leopardiana (addirittura ritornando quasi al di là del dubbio sull’esistenza degli dei e cioè riammettendo la loro esistenza), Leopardi fa un’accusa ancora peggiore della non esistenza, o della loro indifferenza: per gli dei la prole infelice, gli uomini sono oggetto di oltraggio e di scherno («a voi ludibrio e scherno / è la prole infelice / a cui templi chiedeste»). È un’ulteriore accusa: cioè quella prole infelice, a cui voi non offrite altro che ingiurie, oltraggi, scherni e persecuzioni, viceversa avete voluto che vi facesse oggetto di adorazione: «e frodolenta / legge al mortale insulta».
«Dunque tanto i celesti odii [...] pietà?»: cosí la religione, l’adorazione che gli uomini rivolgono agli dei finisce quasi per esacerbare, per irritare gli dei stessi? «dunque [...] Giove, a tutela?»: dunque, o Giove, o padre degli dei, sei tu il tutore non dei giusti, ma addirittura degli empi, quasi il protettore della malvagità del mondo?; «e quando esulta [...] stringi?»: e addirittura quando eserciti il tuo potere di Giove tonante, tu impugni e scagli (al solito il gusto della concisione energica dello stile: in una sola parola c’è appunto il senso dell’impugnare e dello scagliare), la tua fiamma, il tuo fulmine, proprio su quegli uomini giusti che piú dovrebbero essere oggetto del tuo amore, della tua benevolenza?
Si osservi qui che il Leopardi può avere anche risentito di certe sentenze presenti non solo nella poesia antica, ma anche in frasi alfieriane del Saul, dove si parla appunto del Dio Jeova che nella sua ira avvolge i buoni e i cattivi; ma si pensi anche a quella frase dell’Aiace del Foscolo, che probabilmente non gli era presente (ma qui si vogliono indicare anche le consonanze), che dice: «Gl’iniqui e i giusti un fulmin solo atterra»[13]; ma nell’Aiace si parlava di iniqui e di giusti, cioè di un Dio che involge tutti senza distinzione, mentre Leopardi esclude gli iniqui che sono tutelati da Giove (la cui scellerata persecuzione si esercita viceversa solo sui giusti e pii) e individua assai piú decisamente la malvagità dei poteri superiori.
D’altra parte, qui il poeta fa crescere insieme l’acutezza, la forza dei motivi aggressivi e il movimento del linguaggio, che viene sempre piú accelerandosi attraverso i replicati interrogativi, «Dunque», «dunque», «e quando esulta», «quando il tuon», e che trova alla fine, nella clausola rimata «spingi» – «stringi» e nella forma piú immaginosa la sua massima dilatazione.
preme il destino invitto e la ferrata
necessità gl’infermi
schiavi di morte: e se a cessar non vale
gli oltraggi lor, de’ necessarii danni
si consola il plebeo. Men duro è il male
che riparo non ha? dolor non sente
chi di speranza è nudo?
Guerra mortale, eterna, o fato indegno,
teco il prode guerreggia,
di cedere inesperto; e la tiranna
tua destra, allor che vincitrice il grava,
indomito scrollando si pompeggia,
quando nell’alto lato
l’amaro ferro intride,
e maligno alle nere ombre sorride. (vv. 31-45)
È la strofa che attraverso le parole di Bruto, piú apertamente esprime il sentimento di eroica protesta di questa disperazione leopardiana; è la strofa che porta al suo culmine la tensione, anche eccessiva, che è al fondo del Bruto minore e che si consolida soprattutto nel suo finale, non privo di un che di piú atteggiato, denunciabile attraverso quell’espressione già discussa «si pompeggia», ma ripeto certamente non retorico e falso.
La strofa parte ribadendo il senso dell’infelicità umana: «gl’infermi / schiavi di morte»; anche in questa espressione, il Leopardi muove dall’Alfieri, piuttosto che da un linguaggio piú chiaramente levigato, di tipo neoclassico. Si pensi al Foscolo, grande poeta neoclassico, che dirà del destino degli uomini: «E dopo brevi dí sacri alla morte»[14]; ma Leopardi non riprende la forma, com’è quella appunto foscoliano-neoclassica, cosí eletta, cosí perfetta, ricca di un gusto acutamente musicale, riprende invece il linguaggio piú ruvido, piú perentorio e duro dell’Alfieri.
La strofa comincia dunque col ribadire questo senso della infelicità degli uomini, sottoposti a un destino invitto e a una efferata necessità, svolgendolo poi, in una piega assai ardita, non in una direzione fatalistica ma sulla via di una posizione di combattimento; anzi, la posizione fatalistica, quella che Leopardi chiama del «plebeo», l’uomo comune e volgare, non eroico, viene denunciata come posizione insufficiente e sbagliata. Dice appunto il Leopardi: «e se a cessar non vale / gli oltraggi lor», cioè del destino, il plebeo si consola di questi danni in quanto li considera necessari, danni contro cui è inutile rivoltarsi e combattere.
«Guerra mortale [...] inesperto»: non si tratta solo di una volontà, ma quasi di una vocazione a non cedere; l’eroe non è disposto, per la sua stessa natura, a cedere: proprio quando il destino, qualificato come indegno, senza alcun carattere di sacro, l’opprime vittorioso, proprio allora l’eroe celebra in qualche modo la sua piú profonda dignità, scrollando «Indomito» da sé la «tiranna [...] destra», del fato, di Giove e menandone legittimo vanto. Evidentemente ogni distinzione tra fato e dei è impossibile per la posizione leopardiana nel Bruto minore. Quest’ultima espressione ne richiama una del Saul alfieriano sulla terribile mano di Jeova, di cui Leopardi recupera l’idea tirannica dei poteri superiori, proprio cioè una delle piú avanzate punte della posizione di protesta dell’Alfieri, che tanto colpiva per esempio uomini pii, tutt’altro che sprovveduti, come il Rosmini, per i quali questa assimilazione tra Dio e il tiranno terreno, che nell’Alfieri continuamente ritorna, appare posizione assurda o per lo meno bestemmiatrice.
Leopardi, a questo recupero profondo della lezione alfieriana, fa l’importante aggiunta del suicidio, che viene presentato come affermazione della libertà eroica e configurato con una nota di vendetta.
Bruto che si uccide celebra quasi una sua vendetta contro il fato, si vendica sfuggendo alle sue leggi naturali che impongono all’uomo di giungere alla morte naturale: «maligno alle nere ombre sorride». Non si tratta evidentemente di una semplice forma di ironia, come quella che in questo periodo il Leopardi comincia a esercitare attraverso certi scritti minori del ’20-21 già ricordati (Dialogo Galantuomo e Mondo). Qui, coerentemente al tono del Bruto minore, l’ironia è feroce sarcasmo; l’aggettivo «maligno» porta un’annotazione molto piú intensa, quasi eccessiva, di sarcasmo contro gli dei e il fato, per cui l’uomo, uccidendosi, si vendica e prova insieme come una «barbara allegrezza».
Spiace agli Dei chi violento irrompe
nel Tartaro. Non fora
tanto valor ne’ molli eterni petti.
Forse i travagli nostri, e forse il cielo
i casi acerbi e gl’infelici affetti
giocondo agli ozi suoi spettacol pose?
Non fra sciagure e colpe,
ma libera ne’ boschi e pura etade
natura a noi prescrisse,
reina un tempo e Diva. Or poi ch’a terra
sparse i regni beati empio costume,
e il viver macro ad altre leggi addisse;
quando gl’infausti giorni
virile alma ricusa,
riede natura, e il non suo dardo accusa? (vv. 46-60)
Il tema del suicidio, sempre raccordato all’invettiva contro gli dei e risentito nelle forme del sarcasmo, domina la quarta strofa, una delle piú problematiche e aggrovigliate, una delle piú ricche di problemi nascenti, e la quinta.
«Spiace [...] Tartaro»: gli dei crudeli e persecutori non amano il suicida che, irrompendo violentemente nel Tartaro, tronca il percorso delle sofferenze che essi gli hanno preposto; vogliono che l’uomo assapori tutte le sofferenze fino all’ultimo giorno della sua vita. «Non fora [...] petti»: con questa espressione eccessiva di sarcasmo, Leopardi dirà anche che questi dei con i loro eterni, ma molli petti, non possono concepire un tanto valore qual è quello del suicida, e d’altra parte essi non vogliono, come tiranni e crudeli dei neroniani che si divertono nel martirio degli uomini («e forse [...] pose?»), non vogliono che esso cessi troppo rapidamente, che l’uomo si liberi delle sue sofferenze.
Il motivo del suicidio viene poi a svolgere un’altra componente del pensiero leopardiano. Dice appunto il poeta che la natura, che nel lontano passato era stata regina del mondo e diva, non ci ha destinato a vivere fra sciagure e colpe, ma a una vita libera e pura nei boschi, in una specie di Eden primitivo, non ancora costituito in società («Or poi empio costume») e precedente alla caduta di quelle illusioni, che egli in questa zona attribuisce ancora agli uomini. In qualche modo, viene quindi a domandarsi: ma la natura non osta al suicidio? e questo motivo condurrà nella strofa seguente a notevoli svolgimenti. Si noti anche l’esitazione significativa tra sciagure e colpe: evidentemente, all’interno di questa poesia, ci sono ancora forti oscillazioni rispetto alla soluzione successiva e piú diretta delle sciagure semplicemente, per cui gli uomini sventurati piú che colpevoli, sono vittime innocenti. Poiché la natura non regola piú la nostra vita, se un’anima virile rifiuta di vivere questa vita infausta, perché la natura vuole invece improvvisamente riprendere il suo dominio sull’uomo e accusa l’uomo che si dà da sé la morte, piuttosto che attendere la morte (il «dardo») che la natura gli infliggerebbe?
Qui Leopardi è giunto veramente, non piú a una forma di moderata difficoltà, ma di intrico anche nei versi, sfiorando una singolare oscurità, che la stessa forza delle immagini, del linguaggio, non è riuscita del tutto, in questo caso, a superare.
Anche in questa strofa si muovono germi ricchissimi della posizione leopardiana; il tema, per esempio, della “seconda natura”, che sarà svolto in seguito. Gli uomini, da quando la ragione è prevalsa, vivono, alienati dalla natura primitiva, in una specie di seconda e artificiosa natura dove non debbono valere piú le leggi della natura iniziale, per cui lo stesso suicidio è del tutto lecito e congeniale, consentaneo alla seconda natura.
Certo, questi sono temi nascenti, ma proprio nel loro carattere non ancora depurato e chiarito comportano tanto piú le difficoltà in cui, specialmente nel finale della strofa, Leopardi si muove.
Il rapporto tra suicidio, natura e poteri superiori viene poi ulteriormente svolto dalla quinta strofa in poi:
Di colpa ignare e de’ lor proprii danni
le fortunate belve
serena adduce al non previsto passo
la tarda età. Ma se spezzar la fronte
ne’ rudi tronchi, o da montano sasso
dare al vento precipiti le membra,
lor suadesse affanno;
al misero desio nulla contesa
legge arcana farebbe
o tenebroso ingegno. A voi, fra quante
stirpi il cielo avvivò, soli fra tutte,
figli di Prometeo, la vita increbbe;
a voi le morte ripe,
se il fato ignavo pende,
soli, o miseri, a voi Giove contende. (vv. 61-75)
La strofa parte da un paragone fra gli uomini e gli esseri animati, i quali appunto hanno tutt’altra sorte, tanto piú preferibile a quella dell’uomo, perché essi non hanno la coscienza tremenda della colpa, delle proprie sventure e della morte, a cui vanno incontro senza timori e senza dolore. Ma se a un certo punto gli animali e le belve avessero desiderio di suicidarsi (una frase che colpí il De Sanctis che parlò di una specie di «follia ragionante»), se dunque gli animali avessero desiderio di suicidarsi, nessuna legge si opporrebbe a loro, né la natura, né una legge arcana, né un tenebroso ingegno.
C’è dunque qui, da una parte il solito riferimento a una legge di carattere religioso che proibisce il suicidio, e dall’altra il cenno, anche filosoficamente importante, al «tenebroso ingegno», che si può riferire, sulla scorta dei successivi pensieri leopardiani e specialmente dell’operetta morale Dialogo di Plotino e di Porfirio, al luminoso Platone. Leopardi a lungo aveva polemizzato entro lo Zibaldone soprattutto contro le idee innate, assolute, gli archetipi; in questo caso, e successivamente in maniera piú esplicita e matura nel Dialogo, polemizza contro la difesa platonica dell’immortalità dell’anima. Platone ha insinuato negli uomini l’idea dell’immortalità dell’anima, una delle piú supremamente scellerate, una delle maggiori maledizioni che siano capitate all’uomo, che, senza questo dubbio sulla sorte ulteriore, in qualche modo potrebbe liberarsi delle sue sofferenze e dei suoi tormenti (si ricordi il famoso monologo di Amleto).
La conclusione quindi ribadisce il tema fondamentale del Bruto minore, la protesta leopardiana contro il cielo, contro gli dei, che da una parte fecero sí che gli uomini, unici fra tutte le razze esistenti, potessero desiderare di troncare la vita, e poi, dopo aver posto in loro un cosí forte desiderio, tanto piú gli dei, Giove, glielo negano completamente, contendendo a essi le rive della morte.
D’altra parte, il tema specifico dell’immortalità e della credenza in essa, troverà soluzioni sempre piú decise nel Leopardi che giungerà in anni assai tardi (’31-32) a mettere tra le piú sciocche illusioni quella dell’immortalità, per cui gli uomini non si vogliono assuefare all’idea che non hanno nulla da sperare dopo la morte.
Il Bruto minore è dunque gremito di temi scottanti, brucianti, ancora prospettati entro una forma piú impulsiva, piú intuitiva, secondo il carattere della canzone.
Se nella strofa quinta i motivi si erano venuti come piú ancora aggrovigliando e la poesia sembrava essere giunta ai limiti delle sue possibilità, la strofa sesta, in cui Bruto rivolge il suo sguardo alla scena e poi l’allocuzione alla luna, costituisce un certo rilancio della poesia:
E tu dal mar cui nostro sangue irriga,
candida luna, sorgi,
e l’inquieta notte e la funesta
all’ausonio valor campagna esplori.
Cognati petti il vincitor calpesta,
fremono i poggi, dalle somme vette
Roma antica ruina;
tu sí placida sei? Tu la nascente
lavinia prole, e gli anni
lieti vedesti, e i memorandi allori;
e tu su l’alpe l’immutato raggio
tacita verserai quando ne’ danni
del servo italo nome,
sotto barbaro piede
rintronerà quella solinga sede. (vv. 76-90)
Un rilancio poetico forte e ricco, non espresso però con toni contemplativi, di vagheggiato rasserenamento. Il Bruto minore è canzone che non ha certamente toni di tenerezza, di serenità e non ha neppure toni di misura e di calma: la strofa sesta è, tra l’altro, costruita su di un’impostazione fortemente tesa, enfatica, con il “tu” quattro volte replicato. È il “tu” con cui Bruto si rivolge alla luna, un “tu” non affettuoso, che cela anzi un motivo di protesta, che coinvolge adesso piú direttamente la natura attraverso elementi vistosi e che solo esternamente potrebbe far pensare a un Leopardi piú contemplativo, affettuoso, idillico.
In realtà si tratta di un’aggettivazione che partendo dalla prima nota piú neutra «Candida luna», va continuamente caricandosi di un senso di protesta contro questo ente naturale sordo, indifferente; «placida» evidentemente non è un termine di vagheggiamento tenero, è la rivelazione di questa assoluta indifferenza alla sorte degli uomini, con cui la luna contempla placidamente la felicità antica, la grandezza romana, cosí come contempla la rovina tremenda in cui Bruto si sente coinvolto; e il «Tacita» dice il silenzio della natura, dice quell’assenza che anche un altro poeta, il De Vigny, notava nel ciclo della natura, che dovrebbe essere al contrario termine di armonia e di conforto per gli uomini.
Anzi, lo stesso colloquio che Bruto intesse con la luna e, attraverso questa, con la natura, è un ulteriore modo di approfondire il suo assoluto e disperato isolamento, è un colloquio senza risposta e tutt’altro che un improvviso intenerirsi. «Candida luna» è immagine fortemente correlata con l’immagine grandiosa ed enfatica del primo verso, la luna candida di fronte al mare da cui sorge, mare rigato dal sangue degli uomini, dal sangue dei combattenti; è quindi semmai un modo ulteriore per accentuare la sostanziale indifferenza della luna e della natura.
A questa indifferenza della natura il poeta riporta, nella settima strofa, a ulteriore isolamento del personaggio di Bruto e dell’uomo, anche gli esseri animati che non vivono gli affanni umani:
Ecco tra nudi sassi o in verde ramo
e la fera e l’augello,
del consueto obblio gravido il petto,
l’alta ruina ignora e le mutate
sorti del mondo: e come prima il tetto
rosseggerà del villanello industre,
al mattutino canto
quel desterà le valli, e per le balze
quella l’inferma plebe
agiterà delle minori belve.
Oh casi! oh gener vano! abbietta parte
siam delle cose; e non le tinte glebe,
non gli ululati spechi
turbò nostra sciagura,
né scolorò le stelle umana cura. (vv. 91-105)
Il genere umano è isolato nella sua assoluta miseria: gli altri animali, l’uccello o la belva dormono e ignorano questa grandiosa catastrofe storica.
«[...] e come [...] industre»: e quando rosseggerà alle prime tinte dell’alba il tetto del villanello industre; qui, con un movimento assai diverso dal Leopardi maturo che tenderà sempre di piú a vedere senza distinzioni gli uomini, personaggi illustri ed eroici e comune umanità, il poeta considera conglobata nella natura indifferente la frazione del genere umano rappresentata dal villanello industre, appartenente all’indifferenza della natura e degli animali.
Quando ritornerà il sole, dopo questa notte tragica che ha visto la caduta della civiltà antica, di Roma e il suicidio di Bruto, questi esseri riprenderanno la loro tranquilla vita e l’uccellino tornerà con il suo canto mattutino a destare le valli, e la fiera continuerà con il suo istinto a perseguitare gli animali piú deboli e piú indifesi: tutto riprenderà il corso naturale. Gli unici a non riprendere la loro vita naturale sono gli uomini, in questo caso rappresentati attraverso l’accezione di un’umanità eroica, la piú colpita da questa indifferenza e ostilità della natura e del fato.
Noi «abbietta parte / siam delle cose»: il Leopardi, nella scelta dell’aggettivo, aveva esitato tra «negletta» e «abbietta», un’espressione, quella iniziale, piú misurata e che potrà tornare nel clima diverso dell’Ultimo canto di Saffo; nel Bruto, egli sceglie l’espressione piú forte.
«[...] abbietta [...] sciagura»: la sciagura non ha turbato quelle zolle di terreno, che pure sono state tinte col nostro sangue, e sono sordi e indifferenti quegli spechi che hanno riecheggiato dell’urlo dei moribondi e dei feriti.
«Né scolorò le stelle umana cura»: gli affanni degli uomini non hanno scolorato le stelle, non le hanno fatte impallidire, come sarebbe avvenuto se esse partecipassero in qualche modo alla sorte degli uomini. Per l’intensa ricchezza di questo verbo “scolorare”, si può certo pensare a tutta un’antica tradizione poetica, in cui si parlava di stelle che impallidivano, oppure di astri che divenivano rossi in relazione a grandi avvenimenti, mettiamo per la morte di Cesare, nella poesia virgiliana; ma qui il termine rimanda soprattutto ai versi del Petrarca: «Era il giorno ch’al sol si scoloraro / per la pietà del suo factore i rai» («Canzoniere», III, vv. 1-2), non senza però un intento polemico di fronte a una cosí diversa concezione come quella petrarchesca, per la quale appunto i raggi del sole si scoloravano alla morte di Cristo; viceversa per il Leopardi nessuna sciagura, per quanto tragica e per quanto alta, riesce piú a scolorare le stelle indifferenti e ostili.
Sullo slancio di questa grandiosa ed eccessiva iperbole delle stelle, Leopardi viene a riepilogare, nella strofa conclusiva, tutte le condizioni del personaggio di Bruto come rappresentante di un eccezionale momento storico, ma anche della posizione dell’uomo e di se medesimo di fronte al fato («I miei sentimenti di fronte al destino sono stati e sono sempre quelli che io ho espresso nel Bruto minore»: si ricordi la dichiarazione del ’32):
Non io d’Olimpo o di Cocito i sordi
regi, o la terra indegna,
e non la notte moribondo appello;
non te, dell’atra morte ultimo raggio,
conscia futura età. Sdegnoso avello
placàr singulti, ornar parole e doni
di vil caterva? In peggio
precipitano i tempi; e mal s’affida
a putridi nepoti
l’onor d’egregie menti e la suprema
de’ miseri vendetta. A me dintorno
le penne il bruno augello avido roti;
prema la fera, e il nembo
tratti l’ignota spoglia;
e l’aura il nome e la memoria accoglia. (vv. 106-120)
È la strofa che rappresenta l’ergersi piú eroico e insieme enfatico di Bruto, della sua voluttà di totale autodistruzione, di quella specie di «barbara allegrezza», con cui egli tende ad annullare ogni rapporto tra se stesso e ogni altro ente o superiore o della natura, o persino anche della stessa piú comune e mediocre umanità.
È anzitutto ribadita la protesta contro i poteri superiori, ancora una volta indicati con un dubbio ben significativo: «d’Olimpo o di Cocito», celesti o demoniaci; non io mi rivolgo agli dei sordi, siano essi abitatori del cielo o dell’averno, e neppure alla terra indegna o alla notte (che qui soprattutto andranno intese, secondo certi passi virgiliani, come figlie del Caos e quindi risentite sempre in rapporto alla divinità contro cui si protesta) e neppure mi rivolgo ai posteri.
Qui il Leopardi viene intimamente reagendo a quelle soluzioni in qualche modo positive, pur su una base pessimistica e disperata, che erano state aperte da una tradizione poetica recente e soprattutto dal Foscolo creatore dei miti della morte «Giusta di glorie dispensiera» o della religione delle tombe. A tutto ciò il Leopardi, che ha sentito solamente il motivo piú disperato del Foscolo, quello dell’Ortis, oppone il rifiuto di ogni possibilità di rasserenamento. La via della ricostruzione dei valori indicata dal Foscolo, la cui religione laica delle tombe ebbe una importanza poetica e di costume assai rilevante per il Risorgimento italiano, è interamente scartata dal Leopardi per il quale tale via è illusione e retorica.
Queste differenze, qui presenti in forme intuitive, sono assai importanti per distinguere le strade di questi due grandi poeti che propongono due prospettive diverse, non solo della poesia ma della stessa storia spirituale, del primo Ottocento italiano.
Nel Bruto minore la visione catastrofica della storia (che è una continua decadenza per cui all’uomo virtuoso non succedono altro che «putridi nepoti», tempi che vanno «In peggio»), è portata all’estremo: Bruto non vorrà neppure pensare a un futuro né ricollegarsi all’idea dei posteri, rimarrà ferocemente isolato con il corvo, il «bruno augello» che attende la sua morte ruotando sopra di lui, per pascersi del suo cadavere, e con la fiera che andrà a calpestarlo e con il nembo che insulterà la sua ignota anonima spoglia. È perfino rifiutato (in opposizione ai Sepolcri che avevano inteso essere la salvezza dei nomi presso la memoria dei posteri) il suo nome: Bruto vuole essere un’ignota spoglia, nient’altro: «E l’aura il nome e la memoria accoglia».
Il Bruto minore si conclude con questa strofa non priva di turgore e di enfasi, sulla stessa volontà poetica leopardiana di trovare, come risulta dalle varianti, l’espressione piú carica, piú tesa e piú dura, e le immagini piú iperboliche.
Per il verso 13, ad esempio, Leopardi aveva inizialmente esitato sulle parole «attesta», «appella»; dapprima aveva cioè pensato a un rivolgersi di Bruto agli dei, poi la scelta è decisa per «accusa», la parola piú protestataria, la parola della bestemmia brutiana contro i poteri superiori. E cosí al verso 23 («A cui templi chiedeste»), inizialmente aveva a lungo esitato con forme a volte piú esterne: «Che di templi v’onora», «Ch’are v’offriva ed inni» ecc.; poi, aveva cercato un’altra strada: «Ch’a voi le braccia estolle». Ma la decisione finale fu per l’espressione piú dura, che chiariva bene la «frodolenta legge» degli dei che chiedono, quasi impongono questa religione per poi ripagarla con persecuzioni e sofferenze.
E ancora al verso 30 («Ne’ giusti e pii»), inizialmente Leopardi aveva esitato adoperando «giusti» e «innocenti» (con un’espressione non meno importante e che in certo modo tornerà nel clima diverso dell’Ultimo canto di Saffo), ma poi scelse l’espressione che meglio gli permetteva di rilevare l’empietà degli dei, i quali si accanivano proprio sui loro devoti giusti e pii, cioè su coloro che esercitavano un culto verso di essi.
O ancora si può ricordare per il verso 105 («Né scolorò le stelle umana cura») l’iniziale scelta leopardiana per espressioni assai piú modeste: «E pe’ vestigi suoi corse natura», «E le vestigia sue calcò natura»; poi si inserisce una variante piú densa: «Nè del fato mortal pianse natura», dove evidentemente il «pianse» dovette sembrare a Leopardi un’espressione sentimentale e meno immaginosamente efficace e iperbolica di quella che poi scelse.
Proprio questi passaggi, che si possono notare per esempio in questo verso cosí importante, indicano assai bene la tendenza leopardiana, nella stessa fase elaborativa della poesia, a un linguaggio duro e perentorio e a immagini eccitate, grandiose, quasi iperboliche, ma pertinenti al tono fondamentale di questa canzone.
1 Tutte le opere, I, pp. 11-12.
2 (Questo tedesco da buon religioso ha creduto di dover indirizzarvi verso la religione, ciò che io trovo assurdo, s’intende almeno per le vostre opere. Voi sarete piú contento del secondo articolo che è dell’amico Henschel, un giovane prussiano stabilitosi a Parigi da un anno e che io apprezzo molto sia per le sue qualità morali che per la sua erudizione solida e variata. Purtroppo il correttore della rivista ha trovato modo di cambiare e di troncare alcune frasi di Henschel e di farvi alcune inserzioni, cosí la frase in cui si parla dell’influenza deleteria dei vostri profondi studi sulla vostra salute è tutta interamente del correttore di Stoccarda). La lettera si legge nell’Epistolario di Giacomo Leopardi, a cura di F. Moroncini cit., VI, pp. 167-169. La citazione è da p. 167.
3 (Qualunque siano le mie sventure, che si è pensato di voler rivelare e che forse si sono anche un po’ esagerate in questo giornale, io ho avuto abbastanza coraggio per non cercare di diminuirne il peso, né con frivole speranze in una pretesa felicità futura e sconosciuta, né con una vile rassegnazione. I miei sentimenti di fronte al destino sono stati e sono sempre quelli che io ho espresso nel Bruto minore. È stato in seguito a questo coraggio, che essendo condotto dalle mie ricerche ad una filosofia disperante, non ho esitato ad abbracciarla tutta intera; mentre che, d’altra parte, non è stato che per effetto della viltà degli uomini, che hanno bisogno di essere persuasi del merito dell’esistenza, che si son volute considerare le mie opinioni filosofiche come il risultato delle mie sofferenze particolari e che ci si ostina ad attribuire alle mie circostanze materiali ciò che non si deve se non al mio pensiero. Prima di morire protesterò contro questa invenzione della debolezza e della volgarità e pregherò i miei lettori di impegnarsi a distruggere le mie osservazioni e ragionamenti piuttosto che accusare le mie malattie). Tutte le opere, I, p. 1382.
4 Cfr. G. Leopardi, I Canti, a cura di L. Russo, Firenze, Sansoni, 1945.
5 Cfr. P. Bigongiari, Leopardi, Firenze, La Nuova Italia, 1976, p. 113. Il volume era uscito precedentemente, nel 1937, come L’elaborazione della lirica leopardiana, Firenze, Le Monnier; poi, con aggiunte e ritocchi, Firenze, Marzocco, 1948 e Firenze, Vallecchi, 1962.
6 Cfr. M. Marcazzan, «Leopardi e l’ombra di Bruto», in Nostro Ottocento, Brescia, La Scuola Editrice, 1955, pp. 189-292.
7 C. V, st. 47-48. Tutte le opere, I, p. 275.
8 V. Gioberti, Il Gesuita moderno, 5 tomi, Losanna, S. Bonamici e Compagni, 1846-47, III, p. 484.
9 Cfr. Tutte le opere, I, p. 1076.
10 Cfr. G. Leopardi, Canti, con introduzione e commento di M. Fubini, ed. rifatta con la collaborazione di E. Bigi, Torino, Loescher, 1964, 2ª ed. nuovamente riveduta e accresciuta Torino, Loescher, 1971. Cfr. anche M. Fubini, Metrica e poesia. Lezioni sulle forme metriche italiane, Milano, Feltrinelli, 1962, 2ª ed. riveduta e corretta Milano, Feltrinelli, 1970 (19752).
11 Per l’esame delle varianti del Bruto minore cfr. G. Leopardi, Canti, ed. critica a cura di F. Moroncini cit., pp. 199-226.
12 Tutte le opere, I, p. 207.
13 At. V, sc. 3, v. 73.
14 Le Grazie, Viaggio delle api, 1, 10.